ABEL

Abel ha combattuto una guerra nucleare senza che ci fossero stati giorni d'arruolamento coatto. Niente uniformi, niente addestramenti caserme proiettili stivali con la punta metallica. Nulla. Solo una grande esplosione al centro esatto delle cose. Con una risonanza fino ai bordi della Russia. L'onda di propagazione aveva creato un ambiente riarso, ingrigito, inospitale. Abel era morto e si era risollevato prima degli altri. La schiena nuda nella catastrofe si era incollata al cemento della strada e lasciava dietro di sé filamenti sciolti, come di plastica bruciata. Aveva subito cercato la sorella, tra la polvere e un fischio persistente dietro le orecchie. Marianna aveva indosso il suo vestito da bambola, coi fiocchi e le maniche a sbuffo. Era sdraiata lì accanto a lui, pareva avesse dormito. Abel la prendeva per mano, le raccomandava di non allontanarsi mai, per nessun motivo, e di stare lontana dagli oggetti che avesse trovato in terra: penne, banconote di grosso taglio, tubi metallici, sorprese degli ovetti di cioccolato (le uniche cose per lui rimaste erano pericoli). Già manifestava sintomi paranoidi nei confronti delle bombe. E ogni rappresentazione era in potenza un ordigno; ogni dispositivo un trauma. Era stressato, troppo sensibile, e i suoi timpani subissati da un acufene dei peggiori mai provati: vedeva le labbra muoversi, ma non sentiva alcun suono. Solo una voce, da molto lontano e da dentro. Vedeva che non era rimasto nulla di come se lo ricordasse. Si sentiva arrivargli contro il vento con le schegge della scissione nucleare. Sapeva che più lo avrebbero ferito, più lui avrebbe preteso di rimanere immobile, di ripiantare i semi e proteggere ciò che ne sarebbe cresciuto. Finché c'è carne da consumare, abel rimane. Quando si arriva all'osso, abel sacrifica anche quello. Ogni presa di posizione esclude l'alternativa perché porta gli obblighi del destino, Abel si sottrae alla casualità, cerca di capire la voce oltre il fischio (la voce cerca a sua volta di capirlo, entrambi grazie a Dio hanno una direzione). I due presero a camminare. La sorella avrebbe voluto fargli tante domande: non vedi che ci sono i fiori agli angoli delle strade, che ci sono le macchine che inchiodano e ripartono, non ti accorgi delle persone, abel, non ti rendi conto che siamo ancora su una terra che funziona? Chi tornava al lavoro a quell'ora – l’una di pomeriggio, marciapiedi trafficati - squadrava i due fratelli: abel a torso nudo, a detta sua ustionato, e marianna diciannovenne vestita da comunione, attaccata per mano al fratello, mentre allungava le falcate per reggere il ritmo. Una signora si fermò, domandando a marianna se fosse tutto a posto, se lei conoscesse quell'uomo con la testa rasata che la stava trascinando via. Marianna le rispose che era suo fratello, che aveva combattuto una guerra nucleare e che lei doveva badare a lui. Che forse ancora la stava combattendo. Di fronte alla faccia allibita della signora – che giudicava i due come scoppiati, orfani, senzatetto -, marianna aveva mollato la mano ad abel, braccia lungo i fianchi, diritta con la schiena e in russo, in tono biblico, le aveva detto: “La mattina del mercoledì il Signore apprese da Noemi che le donne si erano riunite negli scantinati a pregare. Interpretò allora i segni della fine: convocò gli uomini della terra in file ordinate. Ai più deboli concesse la grazia della morte e ai più forti ordinò di restare. Quelli che non avevano sentito la voce, rimasero nei letti e nel tardo pomeriggio, poco prima della pioggia, bruciarono nel fuoco nucleare. Il Signore non diede nomi alle loro ceneri. Le loro ceneri trattennero gli spettri e li estinsero”.

Abel pensava: di tutti gli uomini, io sono rimasto perché dovevo. Questo dovrà pur significare che io sono tutti gli uomini? Si figurava quella volta in cui erano andati fino alla lontanissima venezia e si erano scordati fosse carnevale: erano sotto un grande baldacchino e guardavano le barche sfilare nel canale e i marchesi in maschera, e le marchese con corsetti talmente stretti da togliere il fiato. Marianna tenendosi i lembi del suo vestitino, si sporgeva sull'acqua, si girava verso il fratello e piangeva. Gli dice: sono troppo felice abel, con la fronte corrucciata, sono così felice che non riesco a smettere di piangere, sto sognando, oh mi sento così bambina e so che non lo sarò mai più. Abel si ricordò dell'inquietudine di quell'attimo, di come gli avesse mozzato il respiro. Il pianto che diventava subito una sensazione obsoleta. La sua infanzia chiara anche. Il presente aveva già in sé il lutto degli eventi. Come tutti gli oggetti nascondevano una deflagrazione. Un cambio retroattivo di prospettiva (abel, io ho già qui esplicito il mio senso e la mia morte?). L'aveva tirata via dall'acqua, accortosi di quanto fosse pericolosa quella posizione - come tutto era pericoloso - con il trambusto che c'era, poi, sarebbe bastata una spinta da sovraffollamento, qualcuno che danzando la colpisse, anche di striscio. Lei non aveva fatto in tempo a lagnarsi che i due si erano svegliati in mezzo a un giardino pubblico, una volta che era terminato il sogno, poco riposati, sconvolti, circondati dalle montagne (abel non le vedeva, non sentiva l'erba con la rugiada, non sapeva del prato, né del giardino). ‘Anna era stesa sulla panchina. Usava le mani unite, palmo contro palmo, come un piccolo cuscino. Abel invece utilizzava tre manoscritti di carta ormai imbarcata, che avevano pieghe in ogni verso. Gli unici superstiti dell'estinzione. Un suo amico orfano (avevano questo in comune?) sempre in un parco gli aveva detto che per essere narratori bisogna raccontare alla maniera dei russi. Allora dallo zaino aveva tirato fuori i tre manoscritti prodotti per associazioni filosofiche legate alla pre-morte. Gli aveva regalato le sole copie esistenti. Abel era molto imbarazzato, si conoscevano troppo poco per accettare il gesto. Sentiva pesare quelle pagine come tavolette di pietra. Sentiva però di non poter rifiutare. Si era seduto sulla panchina più vicina, era estate e si poteva ancora leggere alla sera. Le parole dicevano tutte le cose che abel era: l’ansia e la morale, le rielaborazioni, le mosche impazzite perché sanno della catastrofe, prima che ci si addormenti, con i loro ronzii e battiti veloci d'ali. Gli mancò la madre, che gli aveva lasciato una poesia (“te ne vai, poi torni”) scritta da lei: la memoria spirituale del sangue, doveva ricordarsi dei rifugi antiatomici nei sogni, di una donna che arrivata di notte l'aveva trascinato per un braccio dove moltissime persone inginocchiate pregavano di fronte a una madonna di pietre preziose. Abel era diventato: fede, timore, istinto paterno di conservazione. I manoscritti lo descrivevano tutto, senza dire “ogni famiglia infelice...”, “la storia dell'uomo è biblica”, “i poveri sognatori”. Abel doveva per questo tenerli sempre tutti e tre nello zaino, come la testimonianza della sua vita (interiore ed esteriore), anche se infinitamente pesavano. “Marianna, dormi?” la ragazzina si stropicciava gli occhi con le nocche. Andavano verso la casa di infanzia, anche se erano senza coordinate - nessuna vetta, niente stelle, niente refoli con nomi precisi, solo un amalgama in cui la voce provava a districarsi, in cui tentava di raggiungerli. Abel incoraggiava la sorella. Nel sonno aveva sentito proprio la voce fornirgli indicazioni. Sapeva che si stavano avvicinando, anche se l'ambiente non variava. Marianna, che ci vedeva (case, tronchi, strade), stava al gioco del fratello. Annuiva. È ora di andare. Nel sonno la voce mi ha detto che non devi più prendere le medicine. Erano in una stanza, abel divideva pillole per la mattina, pillole per la sera, smetteva di disegnare, dimenticava le intuizioni. Si prendeva vicina la sorella, tra il muco e le lacrime le diceva: sono tanto triste, non sono mai stato felice; vedo le ombre mi spaventano, non sento niente anche quando penso alla fine. Non sono più... Lei gli rubava i blister e apriva la finestra per fare entrare luce (abel soffiava come i gatti) e buttava tutto nel canale di sotto: vedrai che felicità, d'ora in poi! Lui la faceva sedere su una seggiola. “Bambolina mia, bambolina” le metteva la testa in grembo “vuoi che ti pettini i capelli?”, “per te, solo per te”, “piango perché un giorno finirò”, le pettinava i capelli scuri, le gettava le braccia al collo dandole un sacco di baci sulle guance, senza controllo, poi uno sulla bocca, e approfittava del momento contrastando con le labbra la paura che la sorella gli sparisse tra le mani, che fosse tutto un lungo insopportabile sogno. Più la baciava più costruiva un senso. Lei pensava: “è così che deve essere”. Finivano la giornata con lui che dipingeva su un muro disegni con le ombre così giuste che sembravano uscire dalla parete per vivere. Dormivano sul tappeto, abel aveva crisi epilettiche (‘anna gli infilava un dito tra le labbra, perché non si strozzasse con la lingua), schiumava rabbia, si graffiava le braccia, dopo riposava fermo, addirittura sognava e sapeva che era quello il significato (faceva viaggi tra questo e quel mondo). Un rumore forte lo scosse da quell’ultimo e unico ricordo in cui si sentiva di star amando, in cui si era trovato oltre la nevrosi. Del resto erano sempre rumori a distruggerlo. Il lobo frontale registrava subito l'esplosione, molto prima degli occhi. Si guardava tra le scarpe e c'erano il dito indice, medio e anulare, con lo smalto lucido e molto sangue (si vedeva qualcosa, erano ossa?). Era nauseato dai troppi stimoli, eppure sentiva singhiozzare marianna, poi la cornea contro ogni ordine ingrandiva sulla mano senza tre dita, e più in basso sul fumo che sbuffava dal cadavere di una penna. Voleva raccoglierla per scrivere un diario? Abel correva a perdifiato, quasi col vomito in gola. Quando arrivava le stringeva la mano nella mano come fosse un passero pigolante, sull'orlo della morte che prova a resistere, ma perde le piume e gli si chiude per sempre il becco e gli si sciolgono attorno le ali. Recuperava il filo da sarta dalle tasche, poi un ago e ci incastrava il filo bagnato all'estremità di saliva. “Stai ferma, ti prego” e tentava goffamente di riattaccarle quella poltiglia misto carne e polvere da sparo. Le toccava i capelli “non farlo mai più, d'accordo?” e osservava il risultato: le dita perdevano già colore, si annerivano. Marianna provava a parlare. Lui le chiudeva la bocca con la sua bocca e sapevano entrambi di due persone che non mangiano da giorni, di uno scopo molto più alto dell'umano, ma che solo da un umano può essere agito (se è di dio perché non ci pensa dio?). Così importante da essere ridicolo. Le baciava la mano orribile, le chiedeva scusa, ti avevo detto di stare attenta, di non raccogliere niente, le stringeva la vita piccola diciannovenne, sotto il vestito, voleva fare l'amore ma riusciva a ribadirle solo provo tanto affetto per te. Sono felice con te. Sei molto bella comunque. Procedevano lungo le mura del cimitero. Marianna senza farsi sentire troppo gli indicava con la testa una senzatetto accasciata, vestita con molti strati, nonostante non facesse freddo. Il cimitero era il posto più simile alla terra come si sforzava di ricordarla: grandi palazzi di tumulazioni, i morti stretti in cellette e piccole croci e strutture così schematiche da poter essere solo brutaliste. E tanto silenzio, e niente disturbi. Abel si avvicinava alla donna, lasciava cadere nel bicchierino di plastica un rublo, facendole la carità. Lei col capo acconsentiva, ringraziava, e il ragazzo le toglieva la prima giacca di tre. Se la calava sulla schiena, trattenendo un urlo di dolore (il tessuto jeans gli lacerava l'ustione). La donna era una maria ragazza magra stanchissima che in russo gli sussurrava: “E’ grande la voce che chiama i pazzi. Siano beati i visionari sotto la croce di cristo, e le loro opere di carità”. Abel si sporse con la fronte e lei gliela benedisse in sequenza ortodossa. “Vai ragazzo, noemi sta correndo dal Signore, le donne è da tutto ieri che sgranano i rosari. Gli uomini presto verranno raccolti”. Sottobraccio teneva i manoscritti e un senso cupo come di chi presagisce qualcosa di troppo vero e troppo importante. Maria corse a sostenerlo. Una dolorosissima emicrania lo morse alle meningi, scendendo fino ai nervi dei denti. Si fermò perché la chiamata era troppo forte. Doveva dire, fare. Doveva essere quell'ordine. E nient'altro. Scrisse sull'asfalto consumato una profezia pensata molto tempo prima: sapeva dov'era la casa, doveva solo resistere fino a che non fosse arrivato lì (gli altoparlanti radio del cimitero annunciavano con tranquillità la seconda e imminente esplosione nucleare). Mentre alcune determinazioni non avevano niente di scientificamente concatenato, Abel rileggeva le parole e tremava. Mentre le lettere si incrociavano, sentiva di poter respirare senza la bocca e senza il naso.

La casa si trovava alla fine del mondo, al primo piano di un condominio con le tapparelle cadute, coi buchi della grandine. La porta non era chiusa, al posto del citofono c’era da inserire ancora il solito codice. Marianna lo prese per mano (con la sua mano orribile): udiva lo spettro della madre, udiva che le cose un tempo erano state scritte e ora erano illeggibili. L’atrio era buissimo e percorso da un soffio di vento. Alle pareti rimanevano gli aloni dei quadri. Non c'erano mobili. I bagni con i sanitari divelti. La madre sedeva sullo scheletro del mondo, in mano un rosario, in cirillico tatuato: “del padre, figlio e spirito santo”. I due fratelli non dovevano avere paura. Abel si tolse la giacca, diventata ormai pesantissima, e la appoggiò sulle spalle della madre, che teneramente si voltò. “Quando torni...quando riparti, non vorrei mai”. Marianna le diede un fiocco del vestito e una treccia di capelli. Così adornata, si irrigidì e scomparve. La cucina aveva la portafinestra spalancata. Lì nessuno aveva fatto razzia (le dispense piene di falene e cibo). L'aria si stava riscaldando. Il cielo era scuro per il temporale che sarebbe scoppiato di lì a pochissimo, ma rischiarava tutto ciò che aveva a portata di mano. I volti dei fratelli erano cerulei, così le loro espressioni, così combattevano ancora un poco, prima della fine vera della storia. Il verde delle piante riluceva, i lampi erano neon e per la prima volta dopo molto, Abel rivedeva i contorni, gli arredi, sapeva stella uno, due, luna tonda, sentiva il rumore pulito dell’aria senza detriti. Si rimpolpava nel corpo, mentre le orecchie si sbarazzavano della persecuzione del fischio. Piantava in una vasca quel seme che aveva trasportato in tasca durante tutta la vita. Si sedevano su sedie impolverate in plastica. Tra uno squarcio di luce e un rombo che faceva tremare il balcone, sentivano nitidamente le donne pregare, vedevano a tratti le file di uomini forti. La voce arrivò da dietro, da dentro la casa. Appoggiò una mano sulla spalla sinistra di abel, una mano su quella destra di marianna. E non disse nulla, non si mostrò in volto, solo respirava, e i fratelli sentivano il suo fiato sui colli, indovinavano che nota stesse intonando. Marianna fece vibrare piano le labbra chiuse, e presto si accordò alla monotonia della voce, e così Abel la imitò, aggiustandosi timidamente sulla stessa frequenza. Restavano in una tensione viva, mentre tutt’attorno cresceva il coro. Da ogni angolo una voce uguale e armonica, e i contraccolpi ritmici che rispondevano al canto: una deflagrazione dopo l’altra di un oggetto dopo l’altro, nell’ultimo istante, prima che piovesse per giorni, e che i fogli dei tre dattiloscritti si sciogliessero facilmente con l’aiuto dell’acqua.


prima - dopo