Lui sta per arrivare. Ti avevo chiesto di lasciar perdere, ma tu hai insistito. Non succede niente, hai detto, ci penso io, non ti preoccupare. Mi sto preoccupando. Sono seduta sul divano con le gambe rannicchiate, l’aria è pesante e la casa oltre il divano sembra immensa. Tu ti ci muovi tranquillamente, ti aggiri, ti sposti, segui traiettorie dettate dal caso e non sai stare fermo. Una volta questi tuoi scatti mi agitavano, li osservavo alla ricerca di un senso, e di una direzione, e giravo a vuoto. Ora, mi dico, non mi agitano più: molto peggio quando mi ti siedi a fianco, accoccolato, mentre guardiamo un film, e io, pur di non interrompere il riposo della mia mano fra i tuoi capelli, di noi assorti nella storia, sopporto a malapena il tamburellare ritmato delle tue dita sulla mia gamba, l’oscillare del tuo busto, avanti e indietro, tap tap, su e giù, non mi riesco a concentrare.
Lui sta per arrivare e i pensieri si affollano in testa. Una volta, mi dico, credevo di poter riuscire a non pensare a nulla, i pensieri si affollavano e io li scacciavo, mi concentravo su uno, due, al massimo tre alla volta. Scegliere un numero, e attenersi a quello, diventa terribilmente importante; solo così i numeri fanno presa, segnano un limite al pensiero, un limite alla ripetizione, un freno alle cose che posso pensare di poter pensare. (L’ho letto da qualche parte e mi è sempre sembrato funzionare). Guardo l’orario sul telefono, dovrebbe essere qui a breve. Ti ho chiesto di parlare tu al posto mio, non sono certa del mio aspetto, non riesco nemmeno a immaginarlo.
To prepare a face to meet the faces that you meet.
Scaccio dallo schermo le icone insignificanti e una manciata di mail a scopo pubblicitario, poi lo blocco e lo lancio ai piedi del divano. «Amo, tutto okay?» il tuo viso di colpo è vicino, a una spanna dal mio, materializzato a portata di mano e di ritorno, deduco, da uno dei tuoi viaggi esplorativi per la casa. Hai gli occhi grandi, le ciglia folte, le sopracciglia un po’ alzate, vedo che mi vedi strana, voglio toglierti quello sguardo che mi fa sentire strana e perciò dico, sìsì, mi sono incantata un secondo, tutto okay. «Okay», mi fai eco, i tuoi occhi tornano fiduciosi, le sopracciglia si abbassano, prolunghi lo sguardo un secondo più del dovuto e stringi leggermente il mio polso mentre accenni un sorriso interrogativo. Ti sorrido a mia volta e la tua bocca si rilassa, mi strofini la guancia, mi scompigli i capelli, «piccolina!», poi me li riaggiusti dietro le orecchie, mi accarezzi ancora la testa, una, due, tre volte; la tua mano scivola via e volgi lo sguardo al telefono, la canzone sta per finire e vuoi scegliere la prossima.
L’aria è densa, la musica che hai messo ha un ritmo incalzante e suoni striduli, discutiamo spesso su cosa ascoltare, ti dico che la musica che metti mi piace ma mi fa correre troppo, non riesco a seguire i pensieri, specialmente quando fumiamo. Faccio ancora qualche tiro immemore del gesto, sono già bella andata, la mia mano si muove da sola, sarebbe stato meglio fermarmi qui, giro gli occhi per la stanza, distratta, e per un attimo, cercando di raccogliere i pensieri, cercando di ricordare l’antecedente, rincorrendomi a ritroso e in avanti di nuovo, all’arrivo di lui, al messaggio a cui devo rispondere, per un momento soltanto, le idee che si accavallano, mi sorprende la visione di un grande essere che respira, lo sguardo posato da nessuna parte, la porta sfocata e laterale mi viene incontro, dal fondo, vibra, ride? Ride, mi chiama, mi vede. Uno sguardo che parte da tutte le cose, mi ferisce, mi fa a pezzi, mi toglie il fiato. Se qualcosa mi sfiorasse adesso potrei esplodere, disintegrarmi, evaporare, annullata dall’intensità. Tutta la stanza palpita, la casa più indietro si sfalda, perde confini, cerco di pensarla, cerco di fermarla, mi respira addosso, se chiudessi gli occhi sarebbe la fine. Fisso lo sguardo prima sui muri, poi negli angoli, poi sulla porta; una per volta ogni cosa si ferma, io continuo a guardarle per tenerle ferme. Respiro e conto, conto per respirare. Uno, due, tre; uno, due, tre, espira.
So it is by means of numbers that repetition (which is per se indefinite, and potentially infinite) becomes practicable again.
Torno indietro, mi fermo: ecco, hanno suonato al citofono. Richiamato dal suono squillante ti volti di scatto: «Eccolo!» dici e ti sfreghi le mani, ti alzi. Uno, due, tre; cerco di pensare ai punti in cui il mio corpo tocca qualcosa, incontra resistenza, come al corso di yoga. Cerco di arrestare la mia fuga, guardo le mani e noto di star stringendo forte la coperta, provo a rilassarle. «Sì?» chiedi alla bocca del citofono. «Quarto piano» dici di nuovo e ringrazi, la voce è alta, sei felice. Fai avanti e indietro per la casa cercando gli occhiali, sento il rumore delle porte dell’ascensore che si aprono e si chiudono, il meccanismo in funzione, le porte che si aprono di nuovo. Suonano alla porta e tu apri, saluti, con una mano prendi i sacchetti mentre con l’altra cerchi nella tasca qualche moneta per il tizio che ci ha portato da mangiare. Il tuo fare cordiale, la tua espressione familiare e così adatta a rispondere a lui che ti parla mi sembrano magiche, il tuo corpo disinvolto pare ricomporre il mondo, ricucire lo scenario impastato dalla mia mente, riportarmi a terra.
Lo scambio dura una manciata di secondi. Sorridete entrambi, non c’è nessun intoppo. La porta si richiude leggera mentre nell’androne risuona ancora la vostra risata.