TRANSAMORIS TRANSMORTIS

di Silvia Tebaldi

Strano pensare a te ora, non c’è più tempo e le spiagge della luce vanno in polvere, si sfarinano in sabbia di onde e vuoto. Ora che il mare entra nella foce, l’abisso si fa cielo, che le acque salse risalgono i fiumi. Strano pensarti ora ed esser qui senza nome, forma, documenti o propositi e pensarti. Qui come un io che si credeva essere poi si scioglie, un cuore che non sa se non qualcosa, solo qualcosa di quel che è già accaduto e un’anima di cui non si sa nulla, che la macchina di pena del pensiero allaga come un basso o una cantina e poi si scioglie nel fuoco, qui dopo vite innumerevoli, dopo nomi cognomi identità pensieri, dopo opinioni proiezioni guru statistiche scenari, analisti economici e geotermici, i nostri privilegi suppuranti, gli habitus teoretici, il dirci due volte homo sapiens il praticare squash, mindfulness, zen, ostranenie idrocolture cinismi bizantinismi, essere corpi fuffi e scricchiolanti, corpi elettrici, archi perfetti nel clinamen, piallati arsi tatuati dal conatus, dal karma, dalla terza rivoluzione industriale, noi sputasentenze e succubi, senior manager of this mortal coil, intellettuali di stocazzo, esteti in nuce, vox clamantis voci emergenti lagne mammiferi verbigeranti - di tutto ciò che farne, ora, nulla.

Vanitas vanitatum tutto ciò a che giova, a nulla, a nulla ora che l’asse della terra cede, che collassano i giunti, il mozzo della ruota, il momento torcente, gli assi semiassi calettature incastri del linguaggio, le canne d’organo del logos, i corni d’ammone della dialettica, a che giova esser qui sotto gli astri impassibili, con i piedi affondati dentro il nero, nella sciara vulcanica, con gli occhi che già furono perle, con sulla lingua il gusto del metallo, di lamine d’oro sepolcrali, con acqua sopra cielo sotto ora, esser qui sotto il cielo, sotto il cielo di dio, esser qui nella fine nell’eclissi del sapiens, la specie che pose le altre specie in schiavitù. Non finirà la vita sulla terra, la nostra invece sí che finirà. A che giova menarla con coscienza, conoscenza, identità memoria e individuo, cose che ora sprofondano ora tornano, che gemmano in licheni, onde merletti cinerari favolosa schiuma, che affondano riemergono si inabissano come il pesce di Giona, l’arca nel diluvio, la balena nel libro. Ora io sono io, bestia infestata dal linguaggio, fortezza senza porte sull’esterno, ora tutto si sfuoca e si fa oceano, sguardo-mare, agonia senza forma, estasi secca, vacuità spazzata dal meltemi. A che giova ripetere nomi o ricordare volti, prime edizioni e formule, detti dei padri e dei sapienti, i passaggi di soglia, le soglie del dolore, le scale pentatoniche, i nomi che la paura inventa per distrarsi: la vita sulla terra seguirà, ma non la nostra. La quantità della speranza è infinita, ma non per noi.

Noi che urlammo nel nascere, nel passare da lungo sonno a veglia breve, noi che in quel lungo sonno ritorniamo, noi che così di rado ci abbracciamo senza quel ronzio dentro, quel mormorio, scricchiolio lavorio brusio rovinio del pensiero, amnios delle passioni tristi, beccheggio della tolda. Eppure noi davvero ci abbracciammo - non spesso, non sovente, prima il corpo e una musica dentro - come apprendemmo da bambini piccoli, sulle ginocchia delle nostre madri. In chiarità dopo le cose oscure, nell’ordo amoris prima delle parole.

E ora che sono al termine, sulla soglia del vuoto, sull’aprirsi dell’altra porta - sala senza pareti e senza porte, abisso senza linguaggio, vacuità - o forse dell’ade o giardino o inferno, l’aldilà di cui dissero i profeti, ora su questi scogli senza più io, corpo individuato, vecchia giacca gettata su una sedia, fardello di coscienza e metadati; ora che il mare batte sul pensiero e quell’acqua scura, acqua fossile da lenti sotterranee, acqua piena di scorie e di morfemi, piena di attanti e di residui plastici, di resti uccisi dal capitalocene, dal cobalto, dal petroantropocene e dall’amianto, piena di salvati e di sommersi, quell’acqua nera si sperde e si mescola, sbocca fuori dal tempo, si dissolve in respiro, in acqua primordiale.

Ora è un qui senza opposti, senza più identità, senza più connotati e metadati, e ora è un io che si disse attivista, militante, agnostico o apocalittico o integrato; ora più nessun io a contare soldi, giornate-uomo e fasi e cromosomi, ora sabbia di ciottoli e di luce, polvere di conchiglie d’ossa e pietre, sembianza d’alghe, maestà dell’abisso e io ti penso. Aspetto qui e ti penso, avevo mani e tu me le baciavi, avevi gli occhi e io non ti capivo, c’era un io c’era un tu e molte ferite, incastri e giri a vuoto del congegno. Gioia anteriore venne poi nel caos, nella resa, nel diventare mondo. Felice me nel diventare io, felice nel levarmelo di dosso; nella dissoluzione, nel noi che ci insorella, felici noi assieme e in solitudine, all alive at once then, noi gridandoci addosso nel Persempre.

Qui nel tempo che esonda, qui in hora mortis nostrae, nel giorno prima delle cose ultime, giorno senza Ormuz o Arimàn y en paz y amen, ora che è ora: un attimo sono una persona, sono memoria e rimemorazione, sono un io sedicente; l’istante dopo cade nella luce, è un cosmo dentro il cosmo ed è sostanza, indistinzione oceano sperdimento, fine delle parole astratte, pura sostanza puro suono, la radiazione cosmica di fondo. Vi fu un tempo in cui coltivammo scienze, tecnologie, culture neuroscienze, automoto algoritmi meccatronica, pescicolture agricolture scritture letterature tutte le ture del mondo, tempi di immaginario e di simbolico, dell’ordine del discorso, di iniquità e di afflizioni scandite ex cathedra e di là, dentro il buio, di là il grido l’angoscia l’urlo nero. Ardimos en nuestra obra - fabuloso honor mortal, alto desafìo del fénix - nel tempo che fu impero ma ora è polvere, arsura e diossido di zolfo, è fiumi di lava e siccità, è agonia dei ghiacciai, degli ulivi, delle api, non più tura nessuna tura e nessuno ci salverà dal fuoco sordo, dal fuoco senza colore e presto sarò polvere, azoto e carbonio e cenere - ma prima l’agonia - davvero non è strano che io ti pensi.

Il buio come luce, il visto come il sognato, la roccia che si frantuma in erba e l’erba in polvere cosmica. Tracimano pozzi ed acque fossili, vastità di detriti e tutto esonda, tutto è in fiamme, tutto ritorna un’unica sostanza, e morte non avrà dominio: vita non morirà, solo la nostra.

Sotto il cielo di dio e della sua ira, pregando senza rivolgermi a nessuno. Aspetto e sto e ti penso, è strano ma ci siamo data vita, qualcosa come amore come abbracci, malintesi, biglietti scaduti, nenie prima del sonno e cibo e nomi. Quanto strano è pensarti e stare qui, blest be our failure, assieme a te nei vuoti tra i pensieri, nei vasti spazi interstellari, qui transamoris transmortis causa assieme a te, tra la sabbia ferro di miniere, giglio che non c’è chi lo veda fiorire, non importa chi tu sia qui dove tutto è assieme, genti animali idee pensieri erbe, acque scritture boschi, campo dell’immanenza - ma prima nell’agonia, in questo ospedale dei dannati, verso la foce delle cose ultime. Qui nell’orbita del Grande Attrattore, nel metallo atmosferico ossidato, a ripetere nomi, perché in certe ore è così necessario dire “Amai questo”? Un passero che fu di Lesbia, certi blues, caverne pavimentate di linoleum? Tutto esonda, tutto è in fiamme, una sola sostanza nell’estinzione, foce del tempo, morte che è madre dell’universo eppure resta questa cosa piccola, esserci voluto bene, un’aiuola sull’argine un recinto, l’immanenza fugace e le tue scapole, il mio sterno perimetro di sabbia. Gone beyond joy, una sola sostanza una figura, gioia che eccede ogni comprensione, forma che è quella dell’amore stesso, caw caw caw crows in the white sun, blessed blessed blessed caw caw caw, tutto viene alla luce.


prima - dopo