Tenero rosa tiepolo con tinte violacee al limitare del giorno, quasi all’imbrunire. Paesaggio brullo di sassi e polvere con rade sterpaglie. Sicilia profonda, ma non fa caldo. La donna ha viso ovale, occhi piccoli e verdi, lentiggini e capelli bruni a ornamento. Indossa una veste bianca, stretta in vita. A me lei sembra fatta di acqua. Mi mostra il coltello, è di quelli da scanno, che tacendo si usano ancora per uccidere le bestie nelle campagne e sulle colline. Mi dice che sarò io a uccidere. Con la donna ci sono altre persone, non ne capisco i volti, sembrano indossare cappelli di paglia come non si usano più, e portare baffi lunghi. I tratti si confondono, le sopracciglia mi pare comincino su un volto e si concludano in un altro. Tutti quegli esseri dalle fattezze umane, o forse solo dei torsi confusi e a malapena finiti, a me sembrano fatti di acqua
Franiamo nella valle e intorno a me ci sono promontori sicuri fatti di rocce ammassate, tenute assieme per incastro, da cui emergono pini marittimi e olivi secolari. Intorno non c’è mare, né se ne sente l’odore. Seguo la carovana di questi corpi d’acqua guidata dalla donna occhi verdi. Si fermano e mi guardano. Lei s’avvicina col coltello e me lo mostra, ma io rimango fermo. Mi parla, ma io non capisco, come accade nei ricordi antichi quando le parole si sfanno per la consunzione del tempo. Ci assale un vento fatto di nulla e la donna continua a parlarmi.
Torno indietro, non rispetto al posto che dicevo, ma torno indietro come andando avanti. Un fatto che a volte accade, ma non lo si sa dire. Mentre procedo vedo delle culle di legno, due culle di legno, non di quelle che oscillano, ma ferme e massicce, fatte di legni venati e antichi. Non ospitano figli nati da donne, ma muli dalle fattezze minute. Esseri piccoli che mi guardano con la pietà di chi vive e muore. La donna mi porta avanti. Un andare avanti che è tornare indietro, un altro fatto che a volte accade, ma che non si sa dire.
Adesso ho il coltello da scanno in mano e lo osservo con curiosità cercando una qualche decorazione, testando la morbidezza della presa, la consunzione del manico e il colore dei materiali. La donna e gli altri esseri d’acqua sono accanto a me. Lei questa volta tira in avanti, aggrappandosi al suo collo, un’asina e mentre si avvicina sorride, come quelle statue delle divinità indiane. Mi dice con chiarezza che sarò io a uccidere l’animale e poi mi sussurra il suo nome. Si chiama Alessi, l’asina Alessi.
L’asina mi guarda e io la guardo, ci riconosciamo. Provo pietà per lei e lei lo sa, come è sicura che la ucciderò. Io, che se non fosse stato per la notte e il buio mai mi sarei pensato di riuscire solo a tenere il coltello, sono altrettanto sicuro che porrò fine alla sua vita. Ci guardiamo fraterni ancora io e l’asina Alessi, ci sappiamo: lei morirà e io morirò, siamo finiti e ci doniamo questa profonda negatività.
Alzo il coltello, è scuro nel cielo senza stelle e senza luna. Poi si disfa la fantasia e l’asina Alessi si perde insieme agli altri spettri.